Gli immigrati? Una risorsa come accadde negli anni '60

Don Gigi Gavazza, 64 anni, è parroco dell’Addolorata dal 1990. Nato a Casale, ha abitato a Oltreponte fino al ‘44 quando la sua famiglia è sfollata a Grazzano Badoglio.
È entrato in seminario a dieci anni su suggerimento dell’allora viceparroco di Grazzano, don Gino Piccio.
«Ci sono andato con un amico – racconta – ero chierichetto e mi piaceva molto cantare; non avevo mai pensato di farmi prete, ma in queste cose il Signore ti prende lui». Ha due sorelle: Rosa, che vive con lui da quando è diventato parroco di S. Stefano, nel 1976, e Maria Teresa.
Ama la musica classica e i cantautori italiani, soprattutto Dalla, De Gregori, Guccini e Vecchioni. Suonava la fisarmonica, «oggi molto meno a causa dell’artrite», e ne possiede un esemplare fatto a mano che gli regalò suo padre nel 1953. «Non avessi fatto il prete – dice – sarei stato un divoratore di cinema e di libri». Attualmente sta leggendo Nati due volte, di Pontiggia. Del segno del Capricorno, non ha animali domestici: «Ho paura dei cani, perciò: cani e gatti, ognuno al loro posto».
Numerosissimi gli incarichi diocesani. È stato viceparroco all’Addolorata negli anni ’60, direttore del piccolo seminario, responsabile del centro pastorale giovanile e della pastorale famigliare, insegnante di religione al liceo scientifico. Dal ‘95 guida la pastorale sociale del lavoro.


• Se avesse la bacchetta magica, cosa cambierebbe subito di Casale?
Toglierei l’amianto, che ci ha rovinato e ci rovinerà ancora per qualche generazione.
• Come convive con il fatto che Casale è disseminata di amianto?
Da ragazzino, quando ero in seminario, un pomeriggio alla settimana andavamo a giocare a guardie e ladri su Salita S. Anna e arrivavamo a casa che eravamo bianchi di polvere. Sono un po’ fatalista. Se dovrò ammalarmi mi ammalerò.
Cosa devo fare, star male prima del tempo?
• Come vede Casale da qui a dieci anni?
Ho paura che diventi più povera dal punto di vista delle persone. Le famiglie non fanno più figli: in questa parrocchia, don Pietro Palena negli anni ’70 faceva 40 atti di battesimo all’anno, oggi io ne faccio 20. Anche per questo l’immigrazione
sarà una risorsa.
• Come giudica, fino ad oggi, l’immigrazione a Casale?
Quando sono diventato viceparroco qui all’Addolorata, nel 1961, si stava completando l’immigrazione veneta e meridionale. È stata una ricchezza e adesso gli immigrati di allora non si distinguono più dagli altri. All’inizio degli anni ’90 albanesi e marocchini hanno avuto un impatto diverso, ma nel giro di dieci anni ho visto che si stanno integrando.
Nell’arco di due o tre generazioni diventeremo una società multietnica come ce n’è già in altri paesi.

• E lei invece, come si vede da qui a dieci anni?
Dovrei andare in pensione, ma se lo dico al nostro vescovo, che è un trascinatore travolgente, c’è il rischio che mi dia un altro incarico. Mi piacerebbe leggere, dialogare con la gente, confessare, fare il catechista, cercare di comunicare agli altri le cose belle che ho capito anch’io.
• Le piace il suo lavoro?
Essere prete per me è un’esperienza bellissima e capisco che il Signore mi ha reso facile un cammino che per altri amici preti è stato difficile.
Il mio sogno sarebbe svegliare nella gente un fuoco perché, anche senza trovare il Signore, abbiano qualcosa per cui valga la pena vivere.
• Quando Casale è più bella?
Per la mia professione di prete, ad agosto. Ho l’oratorio chiuso, in giro c’è poca gente e posso riposarmi e dedicarmi alle cose che mi stanno a cuore.
• Una cosa di Casale che proprio non le piace?
Io ci sto bene e da Casale mi muovo pochissimo, ma in generale è una città di pianura che come clima non offre grandi possibilità, e certo la nebbia non è proprio il meglio di Casale.
• Se non vivesse a Casale, dove vorrebbe vivere?
In famiglia siamo sempre stati gente povera, un po’ zingari, sfollati per la guerra. I miei genitori mi hanno insegnato che dobbiamo star bene dove arriviamo. Se devo proprio dire un posto, mi piacerebbe andare a respirare un po’
d’aria buona a Spotorno, dove c’è una casa della diocesi; mi farebbe bene per la mia artrite.

• Qual è un angolo di Monferrato cui è particolarmente legato?
Per me Crea è sempre un posto molto bello, dove mi piacerebbe trascorrere un po’ di tempo.
• Le piace la cucina tipica monferrina? Qual è il suo piatto preferito?
Mangio quello che c’è. I miei genitori e il seminario mi hanno insegnato a mangiare tutto.
D’altra parte mia sorella è una donna straordinaria nelle relazioni umane ma per lei la cucina è come una prigione: ci va e cucina anche bene, ma scappa appena può.

• E da bere?
Non amo i liquori ma un buon bicchiere di vino, soprattutto di barbera, non me lo toglie nessuno. Mi spiace che tanti giovani oggi preferiscano la birra e la Coca Cola.
• Quali sono, secondo lei, pregi e difetti dei casalesi?
Qui a Borgo Ala ho sempre trovato cordialità. È sempre stato un quartiere un po’ ai margini e ha pregi e difetti della povera gente: accoglienti e un po’ pettegoli.
Noi casalesi siamo freddi, distaccati, non facciamo trasparire i nostri sentimenti, e questa iniezione di meridionalismo portata dall’immigrazione ci ha fatto bene, ci ha portato un po’ di calore.

• I suoi pregi personali invece quali sono?
Mi riesce bene la comunicazione, il farmi capire, almeno così mi dice la gente. E poi sono molto determinato, nelle cose non mi arrendo facilmente.
• E i difetti?
Sono un orso: ho un impatto austero con le persone, non sono uno che fa tanti complimenti.
Poi noi sacerdoti avendo delle responsabilità tendiamo ad accentrare le decisioni e a gestire le cose in modo individuale.

• Qual è il suo ricordo più bello?
Ripenso sempre volentieri ai miei anni di viceparroco all’Addolorata e agli anni in cui ho diretto il seminario, al contatto con questi ragazzi che studiavano da prete, al seguirli senza plagiare la loro ricerca.
• E il rimpianto più grande?
Quando ero giovane, un amico prete mi regalò una penna dicendomi “fai il giornalista.”
Quella è una cosa che mi sarebbe piaciuto fare. E non mi sarebbe dispiaciuto prendere la via degli studi, ma avevo troppe cose che mi portavano fuori. Dopotutto non saprei vedermi se non come parroco.
• Di cosa dovrebbe occuparsi la politica?
Famiglia, giovani e lavoro dovrebbero essere messi al centro di un progetto politico, perché sono tre realtà che accompagnano la vita di ogni uomo e coinvolgono tutto il resto, la sanità, la casa, la scuola.
Ma ho l’impressione che ci sia una certa stanchezza nel fare progetti. E se non guardi lontano e ti barcameni solo nelle piccole cose, corri il rischio di fare poca strada.

• E per i giovani cosa ci vorrebbe?
Un giovane per fare progetti deve avere qualcosa di sicuro anche nella precarietà. Chiamiamolo ammortizzatori sociali o formazione, ma tra il posto fisso e la precarietà assoluta ci deve essere una via di mezzo.
• Vista dalla provincia italiana, come valuta la globalizzazione?
È quello che è stata a fine ’700 l’industrializzazione. Bisogna leggerla come un’opportunità e non commettere gli errori di allora. Bisogna fare in modo che a pagare non siano di nuovo i più poveri.

intervista di Cristiano Dell’Oste

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