Chiesa, ti preferiamo con gli ultimi

Chiesa e potere politico. Una partita che, specie se giocata su campi difficili come quelli africani, esige – da parte della chiesa – scelte non dettate da tatticismi, ma da una chiara visione strategica. Visione necessariamente incardinata al progetto della giustizia, della pace, del bene comune (come vuole la dottrina sociale della chiesa), e che, tuttavia, non può prescindere dal confronto con il contesto socio-politico. Ed è qui che scelte e comportamenti non sono univoci.
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Scenario eritreo. Qualche settimana fa, il governo del presidente Isaias Afwerki non ha rinnovato il permesso di soggiorno ai missionari stranieri che lavoravano in Eritrea e li ha costretti a lasciare il paese. A far scattare il provvedimento è stato il fatto che i vescovi locali si sono ribellati ai ripetuti diktat di Afwerki, che vuole una chiesa cattolica nazionalizzata (come ha fatto con la chiesa ortodossa: da tre anni, il patriarca Antonios è agli arresti domiciliari ed è stato sostituito da un laico nominato dal governo).

Hanno detto anche di no al servizio militare obbligatorio per sacerdoti e religiosi. Intendiamoci: per lunghi anni la chiesa cattolica ha guardato con speranza all’esperimento eritreo; da qualche tempo, però, di fronte alla deriva autoritaria del regime, ha scelto di parlar chiaro e di accettarne le conseguenze.

Scenario togolese. Alla recente consacrazione di mons. Denis Komivi Amuzu-Dzakpah ad arcivescovo di Lomé ha preso parte il presidente Faure Gnassingbe. Faure è figlio di quell’Eyadema che ha spadroneggiato il paese per 38 anni e che, nel 1975, fece arrestare e malmenare il giovane sacerdote Denis Komivi, colpevole di aver fatto una predica contro la politica dell’“autenticità”, imperante in quegli anni.

Si è oggi aperta una fase di dialogo? Non è detto. È vero che la conferenza episcopale si è espressa per la riconciliazione nazionale e ha invitato i cittadini a partecipare alle recenti elezioni. Tuttavia, si è ben guardata dal rilevare che il sistema elettorale escogitato dal partito al governo non era in consonanza con i più elementari principi della democrazia rappresentativa.

Scenario kenyano. Siamo alla vigilia delle presidenziali e la Conferenza episcopale ha raccomandato a tutti i votanti di sincerarsi delle qualità morali dei candidati, e ai candidati di essere al di sopra di ogni sospetto quanto a conflitti d’interesse e corruttele. I vescovi, come ovvio, non hanno dato alcuna indicazione specifica di voto. Ma ecco una voce fuori dal coro: quella di mons. John Njue, neo-arcivescovo di Nairobi, neo-cardinale, nonché presidente della Conferenza episcopale. Il quale ha fatto la sua dichiarazione di voto, sottolineando la propria contrarietà al sistema federale proposto dall’opposizione e avversato dal presidente in carica (e candidato) Mwai Kibaki. Molti hanno interpretato questa affermazione come un’invasione di campo.

Scenario zimbabweano. È di qualche mese fa la vicenda di mons. Pius Ncube, arcivescovo di Bulawayo, costretto alle dimissioni in seguito a un’accusa di adulterio, pilotata dal regime. In un paese sotto il tallone di Robert Mugabe, Ncube è stato la voce del dissenso e il difensore dei diritti umani. E anche ora non tace: «Le rozze trame di un regime malvagio non riusciranno a zittirmi. Non cesserò d’impegnarmi per promuovere la dottrina sociale della chiesa e per lavorare con i più poveri e bisognosi».

Queste quattro situazioni – due che non temono di entrare in conflitto con il potere e due che tentano mediazioni, se non accomodamenti – non pretendono di riassumere le posizioni di tutte le chiese locali africane. Tuttavia, consentono qualche osservazione.

Alcune conferenze episcopali hanno avuto – e ancora hanno – un atteggiamento di attesa nei confronti dei governi. Aspettano che le istituzioni democratiche attecchiscano e lo sviluppo economico prenda piede. E collaborano perché si realizzi questa prospettiva. Giustizia, pace, diritti umani vengono talora derubricati a “sottigliezze” da affrontare in un secondo momento. A questo proposito, non è privo di significato che in molte diocesi le Commissioni “Giustizia e pace” sono state assorbite dagli Uffici per lo sviluppo.

Altri vescovi, invece, forse perché si trovano in situazioni difficili e umanamente insostenibili, sono più “profetici”, più inclini a sottolineare la necessità della liberazione, della salvezza integrale della persona umana. Sono disposti a pagare... e si trovano, “per grazia”, al fianco degli ultimi.

Non facciamo fatica a comprendere le ragioni dei vescovi che hanno imboccato la strada dell’attesa, purché sia un’attesa vigile. Ma Nigrizia continua a preferire quei presuli che hanno il coraggio di vivere fino alle ultime conseguenze l’opzione per i poveri e gli oppressi.
Ed è una faccenda, quella dell’opzione per gli oppressi e del rapporto con il potere, che certamente non riguarda solo la chiesa in Africa. Basti citare la “promozione” di mons. Giancarlo Bregatini da vescovo di Locri-Gerace – dove è stato la bandiera della lotta alla ’ndrangheta e dell’impegno della società civile contro l’affermarsi delle logiche mafiose nella politica – ad arcivescovo di Campobasso-Boiano. Una promozione che fa male a tante comunità cristiane, calabresi e non solo.

Ma, nonostante tutto, bisogna insistere. E bisogna lavorare perché la scelta per i poveri e gli oppressi sia ripresa, rivalutata e rilanciata dalla Seconda assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, che si terrà nel 2009 e il cui tema è, neanche a farlo apposta, “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
(editoriale di dicembre della rivista "Nigrizia")

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